La fatica di studiare con la dislessia
La scuola è appena finita ed è tempo di bilanci. Studiare, si sa, è un lavoro faticoso, ma quando l'impegno si traduce in risultati all'altezza delle aspettative, ecco che magicamente la fatica lascia il posto alla soddisfazione e alla voglia di lanciarsi nell'impresa successiva.
Ma pensate come possono vivere questo momento gli studenti che, pur avendo investito tempo ed energie in sfinenti maratone di studio, hanno ottenuto un risultato mediocre o addirittura una bocciatura. Nel migliore dei casi il ragazzo si difende dalla frustrazione, mettendo in scena l'atteggiamento tipico del "non ho voglia di studiare", e come la migliore delle profezie che si autoavvera da lì parte la spirale viziosa che porterà a giustificare gli insuccessi scolastici con lo stesso slogan, rafforzati dalla sentenza "è intelligente ma non si applica".
Questa è la situazione tipica in cui si trova ogni studente che non sappia applicare la strategia di studio adeguata al proprio stile cognitivo e riguarda soprattutto gli studenti caratterizzati da dislessia.
Sfatiamo subito lidea che la dislessia sia una disabilità. Non lo è assolutamente! Si tratta di una neurodiversità che rientra nelle normali variabili nello sviluppo umano e di per sé non rappresenta un problema, ma lo può diventare quando si cerca di conformarla a parametri di pseudo normalità.
La dislessia è solitamente descritta come una variazione dello sviluppo tipico che compromette in modo selettivo, ed in modo più o meno severo, la capacità di leggere. Questo ovviamente non significa che una persona dislessica non sappia leggere, ma per arrivare allo stesso risultato di un lettore standard deve compiere uno sforzo decisamente superiore e con scarsi risultati.
È molto importante cogliere questo aspetto perché dietro ad un banale "non ho voglia di studiare" c'è un mondo di fatiche che non hanno raggiunto lo scopo e che hanno dato vita a meccanismi di difesa perversi che, per proteggere dall'idea di "non essere in grado", fanno virare sull'atteggiamento del "non mi interessa". Negli studenti con dislessia questo meccanismo è ancora più accentuato perché, sebbene abbiano difficoltà nellautomatizzazione del processo di lettura, sono dotatissimi dal punto di vista intellettivo, con spiccate doti di creatività ed empatia, e sono quindi più esposti al rischio di frustrazione che porta a sviluppare quella che che Martin Seligman definisce impotenza appresa, ossia la sensazione di non avere le risorse per affrontare una determinata situazione, e che, insieme alla paura, rappresenta uno dei maggiori freni all'apprendimento.
Questa dinamica è ben rappresentata nella storia raccontata da Jorge Bucay di un di un cucciolo di elefante acquistato da un circo e incatenato fin dai primi giorni di vita ad un paletto conficcato nel terreno. Sebbene l'elefantino tentasse disperatamente di liberarsi, non era abbastanza forte da farcela e arrivò un momento in cui, stremato, si rassegnò e accettò la sua impotenza. Questa esperienza si scrisse nella sua memoria emotiva, divenne parte della sua identità e anche quando da adulto, con la forza acquisita, avrebbe potuto facilmente sradicare quel misero paletto e liberarsi, diede per scontato di non essere in grado e non ci provò più, rimanendo prigioniero dell'impotenza appresa. I ripetuti fallimenti scolastici incatenano i ragazzi proprio a quel paletto, con pesanti ripercussioni sulla motivazione.
Ma se, come abbiamo detto, la dislessia rientra nelle differenze individuali tipiche della neurodiversità umana, secondo cui ogni individuo si comporta in modo differente dagli altri, possiamo evitare di ripercorrere gli errori del passato che volevano correggere comportamenti non conformi per riportarli a livelli di pseudo normalità. Bisogna invece entrare nel meccanismo di questa modalità atipica di apprendimento, comprenderla e costruire mirate strategie di empowerment adatte a questo stile cognitivo.
Facciamo un esempio chiarificatore. Ho avuto la fortuna di avere una nonna che mi appassionava con le sue storie di vita vissuta. Era mancina e mi raccontava di quanto avesse sofferto a scuola perché la obbligavano a scrivere con la mano destra creandole enormi disagi. In effetti ai suoi tempi il mancinismo era trattato come un difetto da estirpare, tant'è vero che il termine mancino deriva dal latino mancus ossia mutilato, malfunzionante, da correggere. In realtà la situazione di handicap era inesistente ed era originata unicamente dalla volontà di riportare il mancino nei canoni destrorsi. Oggi il mancino è libero di esprimersi secondo la sua natura determinando, in alcuni ambiti, una situazione di vantaggio rispetto ai destrimani, come ad esempio in alcuni sport dove il movimento imprevedibile ed inconsueto rappresenta un punto di forza (ad esempio scherma, tennis, pallavolo).
Mancinismo e dislessia sono due neurodiversità accomunate da diverse similitudini che ci insegnano l'importanza del rispetto del proprio stile nell'affrontare le cose della vita, pratiche o cognitive che siano.
Dott.ssa Nicoletta Premoselli
Psicologa a Milano
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